La
malattia idiopatica di Parkinson (sovente definita
morbo di Parkinson) è dovuta alla degenerazione cronica e progressiva delle strutture nervose che costituiscono il
sistema extrapiramidale. Tale alterazione si estrinseca maggiormente in un'area del
sistema nervoso centrale detta sostanza nera o
substantia nigra, un nucleo situato a livello del
mesencefalo in cui viene prodotta la
dopamina, un
neurotrasmettitore in grado di facilitare il movimento agendo su recettori presenti nel
nucleo striato. In definitiva, il momento
patogenetico che caratterizza il morbo di Parkinson è la perdita di gruppi cellulari in grado di
facilitare il movimento attraverso la secrezione di dopamina. Tale elemento patologico trova il suo corrispettivo
clinico nella classica triade che definisce il morbo di Parkinson:
Si osserva stretto legame di
proporzionalità tra la perdita di cellule dopaminergiche e la sintomatologia clinica, anche se esiste una fase di malattia preclinica, in cui la perdita neuronale non è ancora tale da determinare, in condizioni basali, sintomi. Quando il numero di neuroni dopaminergici che in condizioni normali sono circa 500.000, scende al 20-30%, si ha esordio clinico. Ma le alterazioni alla base della malattia di Parkinson sono molto più vaste. I
neuroni ricevono, oltre ad una innervazione dopaminergica, anche una stimolazione colinergica che nella malattia sembra essere aumentata. Lo squilibrio tra sistemi neurotrasmettitoriali sembra dunque essere alla base della malattia, anche se il ruolo della
dopamina è chiaramente centrale.
Fattori di rischio
Questa
patologia colpisce generalmente soggetti oltre i cinquant'anni, con una leggera prevalenza per il
sesso maschile; attualmente in
Italia ci sono più di 200.000 malati di Parkinson, con circa dagli 8.000 ai 12.000 nuovi casi l'anno. È diffusa in tutto il mondo ma ha minore
incidenza in
Cina e
Africa. Le cause del blocco nella produzione della
dopamina sono ancora sconosciute; il Parkinson può comparire dopo
traumialla testa, esposizione a
sostanze tossiche nell'ambiente,
arteriosclerosi cerebrale. In ogni caso è un disturbo caratterizzato dalla degenerazione e dalla morte dei
neuroni produttori di dopamina; quando questi neuroni scendono sotto il 30% compaiono i primi sintomi tipici della malattia.
I sintomi di ansia e depressione collegati alla malattia, sono anche degli effetti collaterali derivati dall'assunzione di dopamina. La dopamina è impiegata come
farmaco per malati psichiatrici e ha vari effetti collaterali, noti dal
1997, quali: ansia o depressione, che possono sfociare in
gioco d'azzardo patologico,
alcolismo,
bulimia,
ipersessualità,
shopping compulsivo. La dopamina può produrre ansia o depressioni per dosaggi superiori a 0.125 milligrammi al giorno, protratti per lunghi periodi di tempo. Dosaggi inferiori e/o interruzioni temporanee della cura proteggono da questi problemi.
I recettori della dopamina sono altamente concentrati nella zona del cervello che definisce l'umore della persona, il comportamento e la ricerca delle soddisfazioni dei propri bisogni. Questa zona si trova in prossimità dell'area che controlla il comportamento che porta al vizio, e all'appagamento dei sensi incontrollato.
Clinicamente la malattia di Parkinson può essere confusa con i molti
parkinsonismi, rispetto ai quali però manca di una causa identificabile. I motivi per cui si verifica un improvviso blocco nella produzione di dopamina, da parte delle cellule dei
gangli posti alla base del
cervello, sono ancora sconosciuti, anche se sono state avanzate varie ipotesi tra le quali prevalgono quella
genetica e quella tossica. Il fatto che la malattia di Parkinson, pur presentando sintomi piuttosto specifici, sia stato descritto per la prima volta solo nel
1800 costituisce un indizio a favore dell'ipotesi tossica, che fa risalire la causa ad una
sostanza chimica prodotta dall'
inquinamento ambientale, ipotesi mai confermata ma tuttora presa in considerazione dalla ricerca. L'ipotesi tossica è stata ulteriormente avvalorata dalla scoperta di una particolare
tossina(
MPTP), che è causa di una patologia reversibile simile al Parkinson. Questa scoperta ha aperto la via alla ricerca di cause tossiche per spiegare la genesi della malattia (il rischio sembra più elevato in ambiente rurale, forse in relazione all'uso di
pesticidi). Il suo ruolo emerse alla fine degli
anni settanta, quando fu riscontrato che numerosi pazienti in gioventù avevano fatto uso di
sostanze stupefacenti contenenti MPTP.
Quanto all'ipotesi
ereditaria, essa non pare confermata da studi su
gemelli identici: la
diagnosi di Parkinson in uno dei due non aumenta la
probabilità che l'altro fratello possa contrarre la malattia, quantomeno in forma conclamata. Studi più recenti, effettuati per mezzo della
tomografia ad emissione di positroni, sembrano attribuire all'ipotesi genetica un'importanza maggiore. Certamente esiste una componente ereditaria nella predisposizione a sviluppare la malattia, ma solo il 10% circa dei malati ha un familiare affetto. La componente genetica sembra essere più importante nei casi ad esordio precoce.
I
pugili professionisti, a seguito dei violenti colpi al capo cui sono soggetti, possono sviluppare una sindrome di Parkinson di carattere progressivo (il caso di
Cassius Clay ne è triste dimostrazione). Da non trascurare, infine, l'ipotesi legata all'età. La malattia presenta un picco di insorgenza attorno ai sessant'anni, e nell'adulto sano la perdita di cellule e
pigmento nella
sostanza nera è maggiore proprio intorno al sessantesimo anno d'età. Viene meno così la protezione delle cellule contenenti
dopamina e il cervello delle persone anziane è, inevitabilmente, più predisposto al Parkinson.
Altra ipotesi attribuisce un ruolo patogenetico a prodotti del
catabolismo endogeno, che producendo
radicali liberi, danneggerebbe le cellule della sostanza nera.
Un'ulteriore ipotesi imputa alla microglia (
sistema immunitario cerebrale) un ruolo importante, dato che la
substantia nigra dei pazienti, contiene microglia molto attiva (forse a causa di un aumento di
citochine) e questo fatto aumenta la produzione di radicali liberi e i danni ossidativi nei neuroni.
Nella maggior parte dei casi il sintomo d'esordio è il tremore, ma in una percentuale non indifferente l'esordio è caratterizzato da impaccio motorio, senso di rigidezza o disturbi molto poco specifici. In genere all'esordio la sintomatologia è unilaterale e può restare tale anche per anni. La triade cardine della malattia è costituita da: tremore, rigidità ed acinesia, con variabile gravità. L'acinesia è la complessiva riduzione della motilità volontaria ed involontaria, e di regola si associa a lentezza dei movimenti (
bradicinesia). Il tremore è tipicamente "a riposo", con bassa frequenza, scompare durante i movimenti volontari e in genere peggiora nelle situazioni di stress emozionale mentre è assente durante il sonno. Nelle fasi iniziali è localizzato soprattutto ai settori distali degli arti (è descritto spesso come "contare monete", meno frequente agli arti inferiori, può essere presente al volto (in particolare alla mandibola). La rigidità è un segno caratteristico e costante e a volte costituisce per lungo tempo il solo segno di malattia. Si apprezza aumentata resistenza al movimento passivo, con caratteristiche di "plasticità". Colpisce tutti i distretti muscolari, anche se in genere esordisce ai muscoli assiali e col passare del tempo diventa prevalente ai muscoli flessori ed adduttori determinando il caratteristico atteggiamento "camptocormico", con capo flesso sul tronco, avambracci semiflessi ed intraruotati, cosce addotte e in leggera flessione sul tronco. Per eseguire movimenti il paziente necessita di molta concentrazione e tipicamente la gestualità e la mimica sono molto scarse. La mimica facciale è scarsa, l'espressione impassibile. La deambulazione è tipicamente a piccoli passi, strisciati, con avvio molto problematico e spesso si apprezza il fenomeno della "
festinazione", cioè progressiva accelerazione della camminata sino a cadere. Il linguaggio diviene monotono, poco espressivo. Nella fase avanzata di malattia la disartria sfocia spesso nella
anartria. Anche la scrittura in un certo senso evolve nello stesso modo (micrografia parkinsoniana) con grafia che tende a rimpicciolirsi. Oltre alla triade di base molti altri sintomi si possono associare a completare un quadro molto variabile da paziente a paziente.
- disturbi soggettivi delle sensibilità
- ridotta velocità dei movimenti oculari
- scialorrea
- disfunzioni vegetative
- disturbi del sonno
- turbe dell'affettività sono molto frequenti nei pazienti con malattia di Parkinson;
- una alterazione delle capacità cognitive è presente invece in circa un quinto dei pazienti, con caratteristiche che differenziano la demenza dei parkinsoniani che sembra legata ad un maggiore interessamento dei lobi frontali (compromissione visiva spaziale, alterazioni della fluenza verbale, etc).
Diagnosi
La diagnosi della malattia di Parkinson si basa essenzialmente sull'esame clinico, e a questo scopo è stata proposta una classificazione che divide la diagnosi in
possibile,
probabile e
certa, in modo simile a quello che accade in altre patologie neurologiche, come la
paralisi sopranucleare progressiva. Questa classificazione mette in evidenza il fatto che la diagnosi della malattia di Parkinson
in vivo sia solo presuntiva, e che la certezza la si riserva all'esame neuropatologico. La somiglianza clinica della malattia con altre forme di
parkinsonismo rende anche ragione del fatto che vi sia una percentuale di errore diagnostico del 20-25%. D'altra parte diverse caratteristiche della malattia di Parkinson all'esordio sono presenti anche in altre condizioni: le condizioni con le quali deve andare in diagnosi differenziale sono essenzialmente queste:
- degenerazione senile della SN: con la vecchiaia si ha una perdita parafisiologica dei neuroni della sostanza nera, probabilmente dovuta ad insulti ossidativi nel corso della vita;
- tremore essenziale: il tremore essenziale è caratterizzato da un tremore che non si inibisce con il movimento volontario e quindi interferisce tipicamente con azioni come, ad esempio, il bere da una tazzina: esso tende ad essere bilaterale, ma è frequentemente monolaterale, è a frequenza maggiore che nel Parkinson, è inibito dall'alcol, e ha una componente famigliare;
- atrofia multi-sistemica: è una rara patologia caratterizzata, nelle sue diverse forme cliniche da sintomi di tipo parkinsoniano, cerebellare e disautonomico; nella sua espressione parkinsoniana rende la diagnosi differenziale molto ardua;
- paralisi sopranucleare progressiva: la paralisi sopranucleare progressiva è una rara patologia che esordisce con paralisi sopranucleare dello sguardo verticale, instabilità posturale e ipertono assiale che rende ragione delle frequenti cadute all'indietro. In mancanza di una eclatante sintomatologia sopranucleare, uno dei metodi di diagnosi differenziale consiste nella somministrazione ex juvantibus di L-DOPA, in quanto i pazienti con PSP non ne sono responsivi;
- degenerazione cortico basale: la diagnosi con il Parkinson risulta molto ardua, specie quando la demenza non è molto pronunciata e vi è tremore;
- parkinsonismo vascolare: il parkinsonismo vascolare è causato da infarti multipli a carico della sostanza bianca e dei nuclei della base, che si presenta con difficoltà motorie, demenza, sintomi pseudobulbari, disautonomia e segni piramidali, e non risponde alla L-DOPA;
- idrocefalo normoteso
- parkinsonismo da farmaci: i farmaci che possono provocare parkinsonismo sono i farmaci facenti parte della classe dei neurolettici.
Diagnosi strumentale
La diagnosi strumentale si avvale soprattutto di metodi di studio radiologici e nucleare della malattia: al primo gruppo possiamo mettere l'
imaging a risonanza magnetica, anche sotto forma di
risonanza magnetica funzionale, affiancata anche dalla
spettroscopia di risonanza magnetica nucleare, e la
sonografia transcranica; nuova metodica che permette di studiare in modo non invasivo e a basso costo il parenchima dei nuclei della base e del mesencefalo, con l'ausilio della finestra temporale; in recenti studi questa metodica ha avuto una sensibilità diagnostica > 90%. La
medicina nucleare permette uno studio accurato della patologia dal punto di vista anatomico e funzionale: essa sfrutta l'uso di traccianti radioattivi iniettati nell'organismo, i quali vanno a depositarsi nei distretti corporei oggetto di studio, evidenziandone il metabolismo, e quindi in maniera diretta o indiretta, caratteristiche come la vitalità o l'attività. Essendo la malattia di Parkinson una patologia a carico del
sistema dopaminergico, i traccianti sono diretti verso:
- il trasportatore della dopamina
- il trasportatore vescicolare delle monoamine di tipo 2
- l'enzima DOPA decarbossilasi
Un altro meccanismo di studio dei nuclei della base è quello
metabolico: alcuni traccianti hanno la proprietà di studiare la captazione regionale di
glucosio, e di evidenziare quindi zone vitali o attive, o zone dove c'è sofferenza metabolica, per perdita anatomica o funzionale delle cellule.
Decorso
È variabile ma nella maggior parte dei casi si ha una lenta ed inarrestabile progressione. In base alla prevalenza di alcuni sintomi e segni piuttosto che altri si possono distinguere due forme di evoluzione:
- forma ipercinetica dominata dal tremore, con età di esordio più precoce, evoluzione meno invalidante e più lenta
- forma acinetico-ipertonica dominata da rigidità ed acinesia, più rapidamente invalidante.
Oggi la terapia con
levodopa ha reso la durata della vita dei pazienti solo poco inferiore a quella della popolazione sana. Ma la terapia ha molti limiti e uno dei problemi è costituito dalla cosiddetta "sindrome da trattamento con levodopa", cioè l'insieme di complicazioni e fenomeni clinici che insorgono nel paziente dopo alcuni anni di terapia:
- fenomeno del wearing-off (effetto di fine dose): (molto comune) con il passare del tempo la durata dell'effetto terapeutico della dose si riduce.
- fluttuazioni on/off: alternanza a breve distanza di periodi di conservata motilità con momenti di marcata acinesia, tremore scarsamente responsivo alla levodopa, senza una vera correlazione con la somministrazione del farmaco; nella fase "on" si hanno movimenti involontari.
- turbe neuropsichiatriche: disturbi del sonno, allucinazioni notturne, soprattutto nei soggetti di età avanzata; si può arrivare a franchi stati psicotici o di confusione mentale.
Una classificazione della stadiazione (in inglese: staging) della malattia di Parkinson nel tempo è fornita dalla tabella di Hoehn e Yahr, la quale suddivide la progressione della sintomatologia clinica in 5 stadi, di cui il primo è quello più lieve e il quinto è quello più invalidante; è una classificazione non precisissima, ma che ben si correla con la pratica clinica.
Terapia
Strategie terapeutiche
La terapia della malattia di Parkinson è principalmente di tipo medico. La terapia tradizionale mira a risolvere la sintomatologia di tipo motorio (tremori, rigidità, acinesia), e permette una remissione dei sintomi specialmente a breve termine, laddove nel tempo essa non permette un controllo soddisfacente a causa di effetti collaterali importanti e di “wearing off” come nel caso della
L-DOPA. Alla luce delle ultime scoperte scientifiche, però, i ricercatori e i clinici si sono accorti che questa malattia può essere corretta tanto meglio quanto più precocemente si riesce a ottenere la diagnosi, ma soprattutto a iniziare la terapia; partendo dal presupposto che la IPD è una malattia neurodegenerativa progressiva il cui esordio clinico avviene in una fase neuropatologicamente avanzata di malattia, e per questo quasi irreversibile, le nuove tendenze della diagnosi e della terapia si sono rivolte alla ricerca di farmaci neuroprotettori che preservino le cellule della sostanza nera dagli insulti principalmente ossidativi a cui sono sottoposte
Terapia sintomatologica
Nonostante tutte le critiche e tutti i farmaci sperimentati per questa malattia, la
levodopa resta il farmaco principale e più utilizzato. Essa va somministrata in associazione con un farmaco inibitore della decarbossilasi in modo da evitare gli effetti collaterali a livello sistemico. Si associa la levodopa/carbidopa (Sinemet), e la levodopa/benserazide (Madopar). Non vi è alcun elemento che possa impedire l’utilizzo della levodopa nella terapia della IPD, e anzi, la levodopa è il farmaco più efficace e quello che permette la maggiore riduzione di mortalità legata alla malattia. La levodopa deve essere presa indefinitamente.
Dopo un certo numero di anni, però (in media 5), compaiono una serie di complicazioni e di effetti collaterali denominati con il termine di “
long term levodopa syndrome”. Questa sindrome è caratterizzata da: “wearing off”, ossia la riduzione del tempo di efficacia del farmaco, che in certi casi deve essere assunto ogni ora, con notevole peggioramento dei sintomi prima della dose successiva; “fasi on-off”, caratterizzati da alternanza anche molto ampia di risposta alla terapia, con periodi di remissione (fasi on) associati a periodi di refrattarietà alla terapia (fasi off); turbe neuropsichiatriche, caratterizzate da disturbi del sonno e allucinazioni. Per questo motivo si è cercato di trovare dei farmaci che possano sostituire o essere associati a questo farmaco, in modo da ritardare l’insorgenza di queste manifestazioni collaterali. Gli agonisti dopaminergici stimolano, con diversa specificità rispetto ai diversi tipi, i recettori per la dopamina. Si dividono in ergolinici (
bromocriptina,
pergolide,
lisuride,
cabergolina), e non ergolinici (
pramipexolo,
ropinirolo,
apomorfina). Il vantaggio rispetto alla levodopa consiste nella minor frequenza di effetti collaterali e di oscillazione nella risposta. Il razionale nel loro utilizzo in pazienti giovani, o che presentano sintomi poco pronunciati consiste nel posticipare in questi soggetti quanto più possibile il ricorso alla levodopa. I dopaminoagonisti possono presentare effetti collaterali importanti come ipotensione ortostatica e nausea. Il razionale dell’utilizzo dei farmaci anticolinergici risiede nella riduzione dell’attività colinergica che di riflesso è aumentata in questi pazienti, causando tremore e rigidità; i farmaci più utilizzati sono
triesfenidile,
biperidene,
orfenadrina. Il loro utilizzo è al momento molto diminuito rispetto al passato, per due motivi principali: la frequenza di effetti collaterali di tipo neurovegetativo, e la possibile interferenza farmacologica con la levodopa.
L’
amantadina (Mantadan) ha una leggera azione sia anticolinergica che dopaminergica, e viene utilizzata specialmente in politerapia per ridurre il tremore e la bradicinesia.
Terapia neuroprotettiva
La
neuroprotezione è un tipo di trattamento che sempre di più sta prendendo piede nella concezione delle patologie del SNC e il suo razionale nella IPD risiede nella evidenza che questa malattia è successiva alla perdita di almeno il 70% dei neuroni della SN, e che le ultime scoperte a livello molecolare stanno aiutando nella comprensione dei meccanismi patogenetici, e nell’elaborazione di presidi terapeutici capaci di agire alla base del problema.
Il farmaco neuroprotettivo più conosciuto e utilizzato è la
selegilina (Deprenyl). La
Selegilina è un inibitore irreversibile della MAO-B che ha un effetto antiossidante, neurotrofico e antiapoptotico
[4]. Essa nella pratica clinica permette di posticipare il ricorso alla levodopa con un buon controllo della sintomatologia.
Quello sulla neuroprotezione nella IPD è un capitolo ancora tutto da scrivere: diversi farmaci sono in fase di sperimentazione, e stanno ottenendo buoni risultati: tra questi un altro inibitore della MAO-B, la
Rasagilina, è un farmaco che ha ottenuto risultati significativi in fase II di sperimentazione. Altre categorie di farmaci sulle quali la ricerca sta andando avanti sono: farmaci favorenti la funzione mitocondriale, antagonisti degli aminoacidi eccitatori, antibiotici, antinfiammatori, fattori neurotrofici.
Terapia chirurgica
Anche in campo neurochirurgico la terapia si sta evolvendo verso forme sempre più efficaci: attualmente la tecnica più utilizzata è la
chirurgia stereotassica: la chirurgia stereotassica permette di trattare punti in profondità nel parenchima cerebrale con precisione millimetrica, con l’aiuto di dispositivi radiologici. La scoperta che alcuni nuclei responsabili come il globo pallido e il nucleo subtalamico potevano essere un bersaglio aggredibile nella IPD, ha permesso di elaborare una tecnica, detta
Deep Brain Stimulation (DBS), che permette una buona remissione clinica e una significativa riduzione della dipendenza da levodopa
[5].
Scopritore della tecnica di stimolazione cerebrale profonda fu
Alim-Louis Benabid, neurochirurgo all'Università di
Grenoble. Nel
1987 utilizzò questa tecnica per la prima volta per curare casi di Parkinson divenuti resistenti ai
farmaci.
La tecnica prevede l'impianto di due elettrostimolatori sotto pelle, uno per lato del cervello, collegati a una
batteria esterna tramite sottili cavi isolati, detti elettrocateteri. Il sistema indirizza microcorrenti elettriche, variando opportunamente l'intensità e la direzione, verso le aree del cervello che governano, dalle quali parti la stimolazione nervosa per un certo movimento.
L'ultima generazione di questi apparecchi è due volte più piccola e le batterie durano cinque volte di più delle precedenti. La miniaturizzazione consente l'impianto nei bambini, oltre a essere meno invasiva.Uno studio pubblicato nel Journal of the American Medical Association (marzo 2009) prova che il 71% dei pazienti affetti da Parkinsom, in un campione di 225 malati, ha evidenziato decisivi miglioramenti nei movimenti e nella diminuzione dei tremori, rispetto al 30% che prendeva solo farmaci.
Terapia con cellule staminali
La scoperta che cellule staminali embrionali stimolate in vitro con il prodotto del gene Nurr1 si differenziavano in cellule dopaminergiche, e che queste, se introdotte per via stereotassica nel cervello di ratti affetti da malattia di Parkinson ne rallentavano la progressione fino all’arresto, ha aperto orizzonti rivoluzionari nel trattamento di questa malattia. Questa tecnica, peraltro, al momento è soltanto sperimentale e problemi di tipo etico e pratico ne limitano l’utilizzo.
Terapia genica
Nel caso della malattia di Parkinson la
terapia genica arriva dagli Stati Uniti. A metterla a punto è stato un team di ricercatori guidati da Michael Kaplitt del New York Presbyterian Hospital/Weill Cornell Medical Center. Il virus con il gene viene iniettato in una zona precisa del cervello, il nucleo subtalamico, che regola il circuito motorio. Il neurotrasmettitore GABA "calma" i neuroni iperattivi ed è deficitario nei pazienti affetti da Parkinson che, di conseguenza, presentano disturbi motori e tremori. Iniettando il gene per il GABA all'interno del cervello, i ricercatori hanno tentato di stimolare la produzione del neurotrasmettitore per normalizzare la funzione del circuito motorio. La tecnica, ancora in fase di sperimentazione 1 (di 3) ha dato risultati promettenti senza effetti collaterali (se non i rischi di una "iniezione" nel cervello), dimostrandosi ragionevolmente sicura, ma è necessario avere cautela e continuare la sperimentazione con studi più ampi.
Altri presidi terapeutici
Altri mezzi per rallentare la progressione della malattia consistono nella terapia dietetica (utilizzo di alimenti ricchi in antiossidanti – Vitamina C,E), esercizio fisico, psicoterapia.
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