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giovedì 22 settembre 2011

LA SPONDILITE ANCHILOSANTE


 INTRODUZIONE

La Spondilite Anchilosante (SA), con l’artrite reattiva, alcune forme di artrite psoriasica, le artriti associate a malattie infiammatorie intestinali (morbo di Crohn, rettocolite ulcerosa) e le spondiloartriti indifferenziate, fa parte del gruppo delle spondiloartropatie (SpA).
Tra queste, è certamente la patologia maggiormente comune e con il decorso più severo. (1) La SA è una malattia reumatica infiammatoria sistemica che coinvolge prevalentemente le articolazioni spinali e sacroiliache. Tale condizione è responsabile di dolore lombare, rigidità, (Fig. 1) ma anche di notevole riduzione della capacità funzionale articolare con gravi conseguenze sugli aspetti socio-economici. (2) Il “management” della SA comporta una stretta educazione del paziente, e un programma di attività fisica regolare di concerto con l’utilizzo dei Farmaci Antinfiammatori Non Steroidei (FANS).
Una seconda linea di trattamento, specie (e non solo) nei casi in cui la malattia è particolarmente severa e refrattaria ai soli FANS, è rappresentata dalla SULFASALAZINA, che ha dimostrato, in parecchi “trials” clinici, essere efficace e ben tollerata in quei pazienti con (prevalente) artrite periferica. (2,4)
Purtroppo la SA è una malattia che beneficia di poche opzioni terapeutiche, ed il paziente affetto dalle forme maggiormente invalidanti risulta di difficile gestione. (3)


EPIDEMIOLOGIA 

Nel gruppo delle malattie reumatiche infiammatorie, la SpA è la diagnosi più comune dopo l’artrite reumatoide. La sua prevalenza è stata a lungo sottostimata. La SA e le SpA indifferenziate (uSpA) sono i sottogruppi più comuni nei paesi occidentali. La SA ha un'incidenza 3 volte maggiore nel sesso maschile ed esordisce in genere in pazienti di età compresa tra i 20 e i 40 anni. È 10-20 volte più frequente in parenti di primo grado di pazienti con SA, rispetto alla popolazione generale e l'aumentata prevalenza dell'Ag tissutale HLA-B27 nei bianchi o dell'Ag HLA-B7 nei neri, suggerisce una predisposizione genetica, benché fattori ambientali possano svolgere un ruolo significativo. Si stima che il rischio potenziale di sviluppare la SA, per individui con HLA-B27 positivi, è di circa il 20%.

ETIOPATOGENESI 

La patogenesi della SA è ancor oggi poco conosciuta, anche se i meccanismi della risposta immuno-mediata coinvolgenti l’antigene leucocitario umano (HLA)-B27, gli infiltrati cellulari infiammatori, le citochine ad attività pro-infiammatoria (TNF-a e IL-10) e i fattori genetici ed ambientali sembrerebbero avere un ruolo chiave. (5) Le ipotesi patogenetiche sono senza alcun dubbio in continua evoluzione; in particolare, le teorie immunologiche, che chiamano in causa una cross-reazione tra proteine “self” e peptidi batterici, alimentano sempre più il concetto secondo cui, batteri in fase di latenza, residenti in macrofagi e cellule dendritiche, andrebbero incontro a una riattivazione attraverso un processo facilitato e promosso dall’HLA-B27. In tale contesto, l’HLA, sarebbe soggetto a una sorta di sfaldamento, che determinerebbe una diminuzione delle capacità proprie di presentazione di peptidi batterici al sistema immune, stimolando così macrofagi e cellule dendritiche infette. La migrazione di queste cellule ai tessuti bersaglio della SA, specie nel midollo localizzato vicino le entesi, potrebbe facilitare la riattivazione di batteri (dominanti) intracellulari creando un favorevole ambiente citochinico. Tale ambiente, potrebbe includere alti livelli di TGF-beta e IL-10, presenti anche in altri siti cosiddetti bersaglio e, quindi, privilegiati dalla risposta del sistema immune come ad esempio l’occhio (segmento anteriore). La riattivazione, teoricamente, potrebbe essere bloccata da una risposta locale da parte dei CD4+ e/o CD8+ (cellule T) all’infiammazione (in loco) responsabile delle manifestazioni cliniche. Miglioramenti nella comprensione dei meccanismi che conferiscono ad alcuni ceppi batterici una potenziale forza per la persistenza all’interno di cellule, includenti i macrofagi, potrebbero aprire la via a nuovi e maggiormente efficaci approcci terapeutici. (6) L’HLA-B27 è certamente importante e significativo in quanto presente in circa il 90% dei pazienti affetti da SA; ma come questo marker genetico conferisca la malattia o la suscettibilità allo sviluppo è ancora assai poco conosciuto. Studi recenti su famiglie e gemelli affetti da SA hanno mostrato che geni addizionali non-HLA-B27 sono necessari per lo sviluppo della malattia. In tale apparente controversia si inserisce il ruolo di agenti esogeni inizianti il processo infiammatorio cronico che non sono stati chiaramente identificati, anche se klebsiella pneumoniae rimane una dei forti candidati; il microrganismo potrebbe agire attraverso il canale intestinale, specie in quei pazienti che mostrano interessamento enterico di tipo infiammatorio. (7) Assai recentemente, in considerazione della frequenza e della severità della malattia che è preponderante nel sesso maschile, è stato implicato nell’etiologia della SA il ruolo degli steroidi androgeni. 9 In conclusione, si può affermare senza grandi difficoltà, come la SA sia caratterizzata dalla più forte associazione con un antigene dell’HLA mai descritta per alcuna patologia; essa rappresenta, pertanto, il modello ideale per la comprensione dei legami tra le malattie immuno-mediate ed il sistema HLA. (8)

CLINICA 

Il sintomo d'esordio più frequente è la lombàgo, sebbene la malattia possa iniziare in modo atipico con un interessamento delle articolazioni periferiche, particolarmente nei bambini e nelle donne; raramente esordisce con una irite acuta (uveite anteriore). Altro sintomo iniziale, ma meno comune, potrebbe essere la diminuzione dell'espansibilità toracica, risultante dall'interessamento diffuso delle strutture costo-vertebrali e/o costo-sternali; sintomi aspecifici come febbricola e astenia, e assai più rari come anoressia, perdita di peso e anemia, generalmente ipocromica-microcitica (presente in forme evolute, tipicamente associata a malattie croniche infiammatorie) rappresentano altre manifestazioni non comuni. I criteri diagnostici per la spondilite anchilosante risalgono al 1984, ovvero i criteri di New York modificati. (Tabella 1) La lombàgo, più spesso notturna e di varia intensità in ragione dell’aggressività della malattia, insieme con la rigidità mattutina che in modo caratteristico si allevia con il movimento, sono sintomi presenti nella quasi totalità della SA, o perlomeno, nelle forme sicuramente più aggressive. Il mantenimento di una postura in flessione o inclinata in avanti migliora la lombalgia e lo spasmo dei muscoli paraspinali, pertanto, è comune una cifosi di vario grado.
Tabella 1: Criteri diagnostici di “New York modificati” per la Spondilite Anchilosante
1. Dolore lombare che migliora con il movimento e non scompare al riposo
2. Riduzione della mobilità lombare sul piano sagittale e frontale
3. Riduzione della espansibilità polmonare in rapporto al sesso e alla età
4. Sacroileite bilaterale di grado 2-4
5. Sacroileite monolaterale di grado 3-4
Diagnosi definita se: sacroileite monolaterale di grado 3-4, o sacroileite bilaterale di grado 2-4 associata ad un qualunque criterio clinico

In circa 1/3 dei pazienti sono riscontrabili manifestazioni sistemiche che variano da ricorrenti episodi di irite acuta, abitualmente autolimitantesi (uveite anteriore) raramente tanto gravi da danneggiare la vista, a segni neurologici come radicoliti o sciatalgie da compressione, fratture o sublussazioni vertebrali, la sindrome della “cauda equina” (impotenza funzionale, incontinenza urinaria notturna, diminuzione dello stimolo alla minzione e alla defecazione, assenza dei riflessi achillei). 
Assai meno comuni le manifestazioni cardiovascolari tra cui l’insufficienza aortica, rari episodi di angina, pericardite e anomalie di conduzione all'ECG. L'interessamento polmonare è molto raro (fibrosi del lobo superiore).
La SA è caratterizzata da accessi di spondilite, di lieve o moderata intensità, alternati a periodi silenti.
In questi pazienti, è di fondamentale importanza la valutazione clinico-strumentale della malattia attraverso la definizione degli “outcomes” per la SA. (Tabella 2)

Tabella 2: Definizione degli “outcomes” per la Spondilite Anchilosante


ATTIVITÀ DI MALATTIA BASDAI, VAS dolore
FUNZIONE FISICA BASFI, BASMI, DFI, HAQ-S STATO DI SALUTE GLOBALE BAS-G “OUTCOMES” RADIOLOGICI BASRI SASS

Il BASDAI (Back Ankylosing Spondylitis Disease Activity Index) combina la stima della mobilità spinale e della funzionalità articolare delle sacroiliache; esso consta dei seguenti “items”:
ß Distanza trago-parete;
ß Flessione lombare (Schober’s test);
ß Rotazione cervicale;
ß Flessione spinale laterale;
ß Distanza intermalleolare.
Secondo gli strumenti ASAS per la valutazione della malattia (Van der Heijde D. et al. AnnRheumDisease2002;61(Suppl.3):24-32) è possibile distinguere tra domini e strumenti per la valutazione degli stessi. (Tabella 3)


Tabella 3: Domini e Strumenti ASAS
Funzione fisica BASFI, Dougados Functional Index Dolore VAS ultima settimana (spinale) la notte VAS spinale (no restrizioni) Mobilità Spinale Espansione toracica (cm), Schober modificato, distanza occipite-parete Stato di salute globale del paziente VAS: ultima settimana Rigidità Durata al mattino (min), rachide ultima settimana Articolazioni periferiche/entesiti N° di articolazioni tumefatte Reattanti della fase acuta (VES) Rx del rachide AP e lombare laterale Rx del bacino AP e lombare laterale Fatica

Il test di Schober consiste nell’identificare un punto che si trova equidistante in una linea immaginaria che unisce le spine iliache postero-superiori mentre il paziente è in posizione ortostatica, segnare un ulteriore punto 10 cm superiormente al precedente e chiedere al paziente di flettersi in avanti al massimo delle sue possibilità. Con il rachide in massima flessione, misurare la distanza tra i due punti. La distanza normale è ≥15 cm.

RADIOLOGIA

Tipiche sono le alterazioni radiologiche, specie, in fase avanzata della malattia che comprendono quadri di sacroileite mono o bilaterale, erosioni e sclerosi ossea reattiva (opacità dell’osso subcondrale) che risulta generalmente più evidente sul versante iliaco dell’articolazione. Tipiche dello scheletro assile sono le alterazioni determinate dalla flogosi degli strati superficiali dell’anulus fibrosus, nelle sedi di inserzione ai margini dei corpi vertebrali con induzione di una sclerosi ossea reattiva (“angoli splendenti”) ed il conseguente riassorbimento osseo (erosioni). Al termine di questo processo il corpo vertebrale tende ad assumere l’aspetto della vertebra “squadrata” (radiogrammi in proiezione latero-laterale); pertanto si assiste alla graduale formazione di “ponti” ossei intervertebrali chiamati sindesmofiti. Alterazioni di tipo infiammatorio coinvolgono spesso anche le articolazioni interapofisarie che a loro volta vanno incontro ad anchilosi; il tutto può essere complicato dalla ossificazione dei legamenti interspinosi. Nel loro complesso, queste modificazioni, sono responsabili dell’anchilosi completa della colonna (“colonna a canna di bamboo”) che si manifesta soprattutto in pazienti con spondilite di lunga durata (7-10 aa) ed in stretta dipendenza all’aggressività della malattia stessa. L’osteoporosi della colonna, sebbene compaia più frequentemente in pazienti malati da lungo tempo, si può anche sviluppare nelle fasi precoci.


TERAPIA

Fondamentalmente la terapia della spondilite anchilosante si fonda sull’utilizzo di Farmaci Anti-infiammatori Non Steroidei (FANS). Tra i più efficaci e maggiormente utilizzati l’INDOMETACINA, il DICLOFENAC, l’IBUPROFENE, il KETOPROFENE, il NAPROSSENE.
Le molecole appartenenti a questa grande famiglia di farmaci sono ragionevolmente tutte utilizzabili, a dosaggi variabili, nel tentativo di conservare un accettabile rapporto tra efficacia e i potenziali (e/o reali) effetti tossici.
Negli ultimi anni, molte segnalazioni di beneficio clinico, perlomeno per le forme associate ad artrite periferica (o prevalente), sono pervenute riguardo la SULFASALAZINA, vecchio salicilato utilizzato un tempo per le malattie infiammatorie dell’intestino (oggi è preferita la mesalazina, figlia legittima). (2, 4)
La dose iniziale è una compressa/die (500 mg), preferibilmente a stomaco pieno, per una settimana, aumentando di una cpr ogni 7 giorni fino ad una dose di mantenimento che può variare da 1-2 gr (2-4 cpr) di SULFASALAZINA/die, in ragione della risposta del paziente (efficacia/tossicità); 1 alcuni clinici preferiscono, in casi particolarmente resistenti, aumentare il dosaggio fino a 2-3 gr/die (4-6 cpr), magari in associazione con un FANS, e comunque, tale scelta associativa, è generalmente una costante per la terapia della SA. Per tale ultima ragione, è consigliabile prevenire eventuali gastropatie attraverso la contemporanea somministrazione di gastroprotettori (misoprostolo, anti-acidi, inibitori di pompa, etc..); è altresì consigliabile, controllare periodicamente la crasi ematica almeno nei primi due mesi di terapia con SULFASALAZINA.
Altri farmaci di fondo (DMARD’s) come METHOTREXATE, AURANOFIN, IDROSSICLOROCHINA, AZATIOPRINA, LEFLUNOMIDE e CICLOSPORINA sono da sconsigliare in quanto non esistono studi sulla loro comprovata efficacia.
Gli steroidi sono sicuramente un capitolo controverso; vi sono rare circostanze in cui un loro impiego (topico) nella SA potrebbe essere giustificato, ma in linea generale, sono sicuramente da sconsigliare per la ridotta efficacia rispetto ai FANS e gli effetti collaterali non indifferenti, specie sul metabolismo osseo.
Di recente una nuova terapia per la SA ha drasticamente trovato grande spazio, perlomeno per le forme severe, molto aggressive, e quindi refrattarie alle poche armi terapeutiche fino ad oggi a disposizione.
Un anticorpo monoclonale anti-TNFa, INFLIXIMAB (REMICADE – SCHERING PLOUGH”), molecola nata come terapia per il morbo di Crohn (MC), è estremamente efficace e ben tollerata anche nell’artrite reumatoide (AR); in commercio in Italia dalla fine del 2000 con l’indicazione per entrambe le patologie, ed utilizzata in vari trials clinici per altre patologie dove il TNFa, citochina ad attività pro-infiammatoria, è stato dimostrato avere un ruolo pilota e centrale in quella che è la cosiddetta cascata infiammatoria, del tutto recentemente, sempre più numerose evidenze cliniche, hanno portato all’utilizzo di INFLIXIMAB nel trattamento della SA. (1, 10)
Dal 2003, tra le indicazioni all’uso del farmaco è presente anche la SA, insieme con il MC e l’AR.
INFLIXIMAB (farmaco in fascia H) è esclusivamente somministrabile in ambiente ospedaliero, solo presso presidi con autorizzazione ministeriale (Reumatologia e/o Immunologia autorizzati). La via di somministrazione è esclusivamente infusionale (endovenosa), anche se evidenze cliniche recentissime, riportano successi nella terapia infiltrativa di INFLIXIMAB (100 mg/iniezione intrarticolare da ripetere dopo 24h) in pazienti affetti da AR con mono-oligoartrite resistente ai tradizionali trattamenti. 16 I protocolli di somministrazione sono sostanzialmente due con efficacia sostanzialmente sovrapponibile; (11, 12) una prima scelta è riconducibile alle esperienze con i tempi di somministrazione per l’artrite reumatoide, ovvero la prima somministrazione a tempo 0 poi 2^, 6^ settimana (fase induttiva) ed ogni 2 mesi (mantenimento). In ragione della risposta individuale del paziente è possibile ridurre (più frequentemente) fino a 45-50 gg o aumentare (non si hanno precise evidenze in tal senso) l’intervallo di somministrazione tra due dosi di INFLIXIMAB (periodo di mantenimento). (12) Altra tipologia di somministrazione per la SA secondo i trials clinici risulta una infusione ogni 6 settimane. (11)
Per l’utilizzo di INFLIXIMAB sono aperte delle riflessioni che nascono dalle evidenze cliniche e dalle conoscenze scientifiche. In primis ci si chiede, come peraltro per i tradizionali DMARD’s, per quanto tempo bisogna continuare la terapia con questa molecola che nasce con mire di grande immunosoppressione (certamente superiore alle terapie convenzionali), ma che dal suo utilizzo sembrerebbe avere, ancor prima, una potentissima azione anti-infiammatoria (confermata anche e soprattutto dall’azione diretta, volta al blocco del TNFa); seconda riflessione, ma non per importanza inferiore, quale siano gli effetti a lungo termine di questo farmaco con attività diretta anti-TNFa citochina certamente ad azione pro-infiammatoria, ma con azioni fisiologiche notevolmente importanti a carico di organi ed apparati (fattore di necrosi tumorale, attività protettiva nei confronti delle ischemie, specie miocardiche, quindi interattività con l’azione del nitrossido endogeno, etc..).
Del tutto recentemente, si è prospettato l’utilizzo nella SA anche di un altro farmaco con azione anti-TNFa, ETANERCEPT (ENBREL – WYETH LEDERLE”), con diverse modalità di somministrazione per via, dose e intervallo (sottocutanea, 25mg due volte la settimana; presto anche una nuova formulazione di 50mg in un'unica somministrazione settimanale) e con efficacia assolutamente sovrapponibile ad INFLIXIMAB per quel che riguarda l’artrite reumatoide, ma a differenza di quest’ultimo, in attesa dell’autorizzazione ministeriale per l’inserimento tra le indicazioni ufficiali, il trattamento della spondilite anchilosante (probabilmente entro i primi mesi del 2004).

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